
FATTO: Il procedimento ha tratto origine da un esposto pervenuto all’Ordine degli Avvocati di Vicenza con cui un ex assistito lamentava di aver affidato nell’agosto 2016 all’avv. [RICORRENTE] un incarico per l’assistenza nei rapporti con la moglie separata, che, dopo alcune interlocuzioni con il collega avversario, il legale gli aveva suggerito il deposito di un ricorso giudiziale ed aveva per questo richiesto e ottenuto il pagamento di un acconto di euro 700;
nelle successive settimane l’avvocato con più messaggi telefonici aveva rassicurato del deposito del ricorso in tribunale e, a successiva richiesta, aveva precisato di essere in attesa della fissazione dell’udienza; dopo altre settimane il cliente aveva però accertato che il ricorso non era mai stato depositato ed aveva quindi richiesto la restituzione dell’acconto a cui l’avvocato rispondeva con un messaggio «whatsapp» con cui gli chiedeva il codice iban.
All’esposto erano allegati copie e trascrizioni di diversi messaggi WhatsApp a conferma dei rapporti e delle conversazioni intercorsi con il legale.
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